La posizione geografica di Genova rappresentò sempre un capestro, oltre che una garanzia per la propria indipendenza. In particolare per quello che riguardava alla fine del 1600 una città in piena evoluzione, che per i suoi fabbisogni alimentari necessitava di un continuo conferimento di bestiame da macellare. Il tipo di consumo alimentare era mutato fortemente rispetto al periodo medievale: era costante l’afflusso di viaggiatori, pellegrini, rappresentanze di altri stati che dovevano essere soddisfatti con un’offerta alimentare accettabile. Si iniziò ad importare bestiame anche dalla Germania, spesso anche più a Nord. Nacque così, per dare una mano, il contrabbando di bestiame, contrabbando di carni alla genovese, praticato perlopiù da schiavi nell’ambito della Darsena.Capi di bestiame venivano issati a viva forza, con imbraghi, sulle mura e scaricati all’interno della città. Il Governo ed i governatori erano a conoscenza di questo tipo di traffico. Ad esso reagivano con rassegnazione, non bastando esso stesso a soddisfare il fabbisogno. Intanto le gabelle sul traffico legale di carne continuarono ad aumentare, creando una ferita economica alla quale i protettori della Casa di San Giorgio non sapevano porre rimedio. Intanto, nella Darsena, patria del commercio di schiavi, ci si organizzò e si iniziò, naturalmente con il beneplacito degli aguzzini interessati, addirittura a macellare le bestie. In questo disordine di posizione, che è tutto genovese, nel nome degli interessi privati, troviamo il padrone che entra in società con lo schiavo. C’era poi la guardia addetta ai varchi che acquista carne di pecora a 32 denari la libbra anzichè ai 42 dei mercati di Soziglia e Canneto.Nulla poterono le grida dei gabellieri contro il brulichio di attività illecite intorno alle mura cittadine: era nato il contrabbando come malavita organizzata.
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